“Non so se le avrei dato due lire, dal titolo” - mi dice un’amica consigliandomi una serie spagnola, “Las de la última fila” / Le ragazze dell’ultimo banco - “…però guardala”.
Un po’ perché mi fido di lei, un po’ perché uno dei miei obiettivi nella vita è togliermi di dosso appena riesco le tracce di snobismo che mi farebbero proseguire solo su sentieri conosciuti, la guardo.
Cinque donne tra i 30 e i 40 si rasano a zero, una per una. “Una di noi ha il cancro” spiega una voce fuori campo. Non si sa chi. Così sei lì che inizi a guardare chiedendoti chi lo abbia, cerchi indizi mentre ti viene spiegato il contesto.
Sono diventate amiche a scuola, quando l’ordine alfabetico le ha sistemate tutte vicine, in ultimo banco.
Oggi decidono di fare una vacanza insieme - da Madrid a Cádiz in auto - con sole due regole:
- non si parla del cancro e non si dice chi lo ha
- ogni giorno si pesca un bigliettino anonimo con su scritto la sfida da portare a termine. Ognuna di loro ha scritto il suo papelito prima di partire, con una cosa che avrebbe sempre voluto fare ma le è mancato il coraggio.
Ogni bigliettino ovviamente tira fuori sfide che le portano a fare roba bislacca, grande, bella, che le mette in difficoltà.
Il punto non sta tanto nelle situazioni più o meno verosimili, quanto nelle dinamiche tra di loro nel mentre: si passa dalla dolcezza dell’affetto alla durezza delle parole che a volte si rivolgono, dall’euforia da ragazzine al mettere le mani nelle situazioni che han lasciato a casa.
C’è chi a casa ha marito e pargoli, chi la fidanzata, chi vive la sua solitudine con fierezza, chi nasconde vulnerabilità e dolcezza sotto una bella coltre di sarcasmo e birra. Sono sarcastiche, tenere, volgari, delicate, sguaiate, drammatiche, incoerenti.
Insomma, partono, cinque teste rasate che in macchina cantano e si preparano alle sfide, si commuovono, si prendono in giro pesante, ridono male. Un gallinaio. E che bel gallinaio da vedere. A me ha fatto venire in mente tutte le volte che nel delirio delle sofferenze varie ciò che mi ha teso un braccio per ripigliarmi ha spesso avuto la forma della frivolezza comunitaria. Ma allarghiamo anche il discorso: è facile che anche nei temi più seri e a cui tengo di più, nel tempo io abbia infilato sempre più dosi di frivolo, con altre persone che lo hanno fatto con me.
All’inizio con fatica. Tutto ciò che è frivolo non è proprio ben visto, ha addosso l’etichetta della superficialità a tutto tondo, come se potessimo essere individui fatti di una roba sola tra due alternative: sery o frivoly. Un dualismo senza scampo.
La serietà spesso si sovrappone alla seriosità, come se la seconda fosse il significato esatto della prima.
Ho anche l’impressione che valga soprattutto per le apparenze, negli ambienti come il lavoro, le discussioni su che ne so, i diritti civili, l’ambiente, le libertà. Che la serietà di intenti e di approccio si misuri per forza in compostezza, decoro e sobrietà mi è sempre parso un po’ troppo da chiedere a degli esseri umani, che a volte l’energia, la forza e la perseveranza la trovano proprio nella leggerezza, nel disordine, nell’intemperanza.
Vale per chiunque. Parlo di genere perché sia la serie sia il discorso mi toccano su questo aspetto, ma ho la netta sensazione che valga un po’ allo stesso modo anche se sei maschio etero - anzi, per certi versi pure di più, sarebbe da aprire una parentesi altrove - gay, lesbica, trans, disabile, nerə, queer o più di una di queste cose insieme.
Che lottare per le proprie battaglie vada fatto se possibile in silenzio, senza far casino, ma soprattutto sempre e solo presy male. Che la rabbia per carità rimanga rabbia - così magari la strumentalizza dall’altra parte - che una persona malata si chiuda in casa a piangere e basta - o se non lo fa è un piccolo miracolo, che tenerezza - che la disabilità sia solo mesta o tenera, meglio se comunque in disparte a cui tirare sguardi di compassione, che gli uomini siano sempre tutti d’un pezzo, che le donne per farsi ascoltare però siano serie e accondiscendenti. Il che non significa che si stia inneggiando all’essere sempre colmy di gioia, canticchianti e farcity di una positività forzata. None, le persone sono anche tristi, arrabbiate, fragili, serie. Ma mi sa che possono essere serenamente, alternativamente, caoticamente tutte e due le cose.
Ora, io non so se sto scoprendo l’acqua calda ma posso assicurare che tradurre questi pensieri nelle azioni reali della mia vita non è tutt’ora la cosa più facile del creato; ma lo sto facendo sempre più spesso.
C’è una buona dose di sentirsi fuori posto, nel farlo. Presa meno sul serio, appunto. Di per sé, c’è da dire che il termine gallinaio non ha un’accezione immediatamente positiva. Far pace con il fatto che un modo valido tanto quanto gli altri di sfruttare la sofferenza per evolversi sia mescolare le azioni serie al frivolo, con una buona dose di rischio di mettersi in ridicolo, è stato strano. Come se la leggerezza invalidasse non solo ciò che si sta dicendo, ma proprio ciò che si è.
Che bella questa voglia di essere felici tutty insieme
L’anno scorso mia madre aveva commentato le Instagram stories che avevo fatto al Pride con un “che bella questa voglia di essere felicy tutty insieme” e io, a parte essermi commossa, poi ci avevo scritto su:
Mi ha fatto pensare a una roba: la gente presa bene fa più paura di qualsiasi altra cosa. Paura positiva, dico. In un mondo mediatico che ci instilla la tentazione di essere separaty, presy male, sempre più arrabbiaty ma di quella rabbia annichilente verso un'altra categoria a caso che ci ruba qualcosa, non di quel furore positivo che ci spinge a lottare, il pride è un momento di enorme coraggio per dire HEY SAI CHE C'È, NON CI STIAMO.
Ballare, usare i corpi per occupare spazi collettivi, per voler essere felici tutty insieme, che se non sono felici le altre persone è davvero difficile esserlo noi, è uno degli atti politici più rivoluzionari.
La presa bene è molto più difficile da strumentalizzare, da disunire, da condannare a scopi "politici", da usare per creare spaccature, da colpire in fallo. Ha una potenza di tutela di se stessa che disarma. Pare fossimo quasi quarantamila ieri a Genova, gente di ogni tipo, con più o meno privilegi, e il punto era prendersi cura delle persone: la festa più serena, rispettosa, benevolmente agguerrita che potevamo mettere su, insieme.
La rabbia positiva ce la portiamo dietro, sì, non è sempre facile ma settimane come quella del pride sono acqua fresca per labbra secche, e sto moto di furore per ciò che vogliamo ce lo portiamo in giro sfacciatamente brillantinaty.
Insomma, questa newsletter dopo tanto non fa niente di che, se non consigliarvi una serie e incoraggiarvi a tirare fuori i moti di gallinaio che sono in voi. Poi mi dite se funziona.
Alla prossima.
Hasta il gallinaio siempre.
Che belle le donne quando fanno il gallinaio insieme. Mi ha fatto pensare a una delle ultime newsletter di Paola Chiara Masuzzo, Fate ə monellə. Che ti consiglio
Quella serie è bellissima. Anche io l'avevo iniziata con snobismo e invece ❤️